Dal Surrealismo letterario di Leonora Carrington a quello pittorico del Maestro Ciro Palumbo

"Accogli l'ignoto", olio su tela, 100x100 cm., 2022 "Accogli l'ignoto", olio su tela, 100x100 cm., 2022 opera di Ciro Palumbo
L’artista, di fama internazionale, ha presentato la sua ricerca presso il Padiglione Grenada alla Biennale di Venezia.

Recente è stata la conversazione, presso il Padiglione Nazionale Grenada alla 59. Biennale di Venezia Arte, con il pittore di fama internazionale Ciro Palumbo. La sua indagine, che presenta accenti surreali e metafisici, lo rende erede di tutta quella tradizione del Surrealismo italiano. Se il tema dell’intera manifestazione visiva attinge dal romanzo della scrittrice Leonora Carrington e dal suo mondo di sogni, fantasie e mitologie personali al contempo Palumbo, con una “scrittura” visiva, fonda le basi per un surrealismo moderno, contemporaneo, che guarda il periodo storico interrogandosi sulla metafisica propria a tale epoca. In tale occasione abbiamo avuto l’onore di approfondire le sue riflessioni con alcune domande:

 

Il titolo dell’opera, presentata per l’occasione, è Accogli l’ignoto, un olio su tela realizzato nel 2022. Nella sua poetica spesso è presente la riflessione sottesa di abbracciare l’alterità in una riscoperta di sé stessi e quindi degli altri espressa con simboli e note metafisiche, tra cui la barca, elemento spesso ricorrente; basti pensare anche a Sognando Itaca, E la barca va, Parto con il mio mondo, L’inizio di un viaggio. Può parlarci della tematica del viaggio nella sua riflessione?

Il viaggio può essere un’allegoria, un pretesto esistenziale per fare ricerca, quel tipo di ricerca che parte da un impeto profondo insito in ogni uomo. Lo intendo come un percorso per l’anima che ci spinge al cambiamento senza averne timore.

 

Accogli l’ignoto rimanda a un concetto inclusivo in linea con il tema generale della mostra dal titolo An Unknown that does not terrify. Il punto iniziale di partenza è la figura dell’intellettuale martinicano Édouard Glissant specie nel modo in cui egli sviluppa la “Poetica della Relazione”. Da qui il «diritto all’opacità» di ognuno, rivendicato dal filosofo, che si basa su una «singolarità non riducibile» ad un autismo identitario ma impostata sulla relazione con l’Altro. Quali sono, a suo avviso, le sue opere più significative che virano verso questa interpretazione?

Al fruitore dell’opera la scelta. Sono le opere che evocano il valore dell’accoglienza e danno la possibilità di sentirsi in un luogo “proprio”, ovunque e comunque, nella forma e nel colore. Diversi miei lavori parlano di “microcosmi” dove la presenza umana è attesa o è passata, sono luoghi dell’essere dove l’anima si confronta con ciò che la “relazione” con l’altro trasforma dentro di noi.

 

Il «diritto all'opacità» di ognuno, ossia a non essere compreso e a non voler comprendere totalmente l’altro è «ciò che protegge il diverso» per gettare le basi alle «non barbarie». L'arte può aiutare in tal senso e come?

Anche se comprendo il senso delle affermazioni di Édouard Glissant, rimango comunque uno strenuo sostenitore dell’importanza di fare lo sforzo di inclusione dell’«altro» anche cercando di comprenderlo. Credo che ogni forma d’arte possa essere strumento per smantellare le “barbarie” in quanto tentativo di protezione del pensiero. Purtroppo non sempre essa viene letta in tal senso, ma è pur vero che la forza della pittura o di ogni altra forma d’arte in genere è la sua trasversalità e di conseguenza la capacità di comunicare senza la certezza che il messaggio venga percepito tale e quale a ciò che l’artista intende esprimere.

 

La sua produzione è fatta di rivelazioni e enigmi volgendo a uno stile surreale: ali, stelle, sfere, animali, prismi, senza trascurare i riferimenti colti come - nell’opera in esame - quelli alla Divina Commedia di Dante. Come nasce il processo creativo e soprattutto si può dire che il genere in esame getti le basi per una metafisica della contemporaneità?

Certo che sì. Da tempo cerco di attualizzare ciò che fu nella pittura il concetto di metafisica, credo sia possibile e non sono l’unico a farlo. Il processo creativo è uno dei tanti misteri della pittura, per me difficile da spiegare. Sicuramente ritengo importante approcciarmi al mio lavoro con metodo e disciplina, quasi come fosse un cerimoniale. Trovo linfa nelle suggestioni che nascono dalla lettura e dalla conoscenza del cammino che i Maestri prima di me hanno percorso. Poi mi nutro della forza delle immagini, attraverso le quali posso immergermi in altri luoghi da cui spesso nascono nuove vie da percorrere. Inoltre amo il confronto con critici d’arte, curatori, galleristi, scrittori e poeti. In questi incontri spesso si accendono sinapsi che portano alla nascita di progetti.

 

Crede di avere punti di raccordo con la tradizione italiana o straniera, quale ad esempio quella rappresentata dagli esponenti della Scuola Metafisica del XX secolo, Giorgio De Chirico fra tutti, oppure si pensi a quella corrente del simbolismo francese del XIX secolo, a tal proposito viene in mente l’epigono più significativo come Odilon Redon?

Mi sento molto legato alla tradizione e in particolare a quella del IX e XX secolo. Molti autori di quei periodi, a prescindere dalla corrente, segnano il mio lavoro: ovviamente la scuola metafisica di Savinio, De Chirico, Carrà, ma non meno i surrealisti classici come Magritte, Dalì, Delvaux.

 

Diversi sono i riferimenti alla mitologia e all’antica Grecia, a tal proposito oggi - citando il titolo di una sua opera - chi sono i “Nuovi Guerrieri” e come si può riscrivere il concetto di “Mito”?

Non è necessario riscrivere il concetto di Mito, esso rappresenta un riferimento, una partenza. Se pensiamo a quali sono i miti oggi, supereroi del fumetto e del cinema, i brand più famosi della moda o dello sport, possiamo solo fare una constatazione: mentre i racconti mitologici su Ermes, Venere o Prometeo sono carichi di contenuti che approdano al pensiero filosofico, oggi il “mito” si è svuotato di contenuti, è diventato un comportamento esteriore con effetti speciali. Comunque di miti c’è bisogno, altrimenti si ha paura del vuoto.

 

Intervista a cura di Erminia Iori

 

Classe 1986, storico del cinema e giornalista pubblicista, appassionato di courtroom dramas, noir, gialli e western da oltre quindici anni, ha lavorato come battitore e segretario di produzione per un documentario su Pier Paolo Pasolini. Dopo un master in Editoria e Giornalismo, ha collaborato con il Saggiatore e con la Dino Audino Editore. Attualmente lavora come redattore freelance, promotore di eventi culturali e collaboratore alle vendite in occasione di presentazioni, incontri, dibattiti e fiere librarie.