L’impegno sociale dell’artista Carlo Alberto Perillo, ospite presso il Padiglione Nazionale Grenada alla 59. Biennale di Venezia Arte

La produzione del Nostro risulta strettamente legata al pensiero dell’intellettuale martinicano Édouard Glissant, da cui parte tutta la rassegna del padiglione, specie nel modo in cui egli sviluppa la “Poetica della Relazione”. E se Glissant tratta «l’olocausto degli olocausti» derivato dall’alienazione storica e culturale per la colonizzazione europea - da qui il «diritto all’opacità» rivendicato dal filosofo della Martinica che si basa su una «singolarità non riducibile» ad un autismo identitario -, parimenti Perillo indaga la tematica del “diverso” guardando proprio all’inclusione e alla multietnicità.
La conversazione con il Maestro, si è svolta presso il Giardino Bianco Art Space in via G. Garibaldi 1814 in zona Castello (Venezia).
L’opera Nuovo Esodo - Gli Scartati, presentata nella 59. Biennale di Venezia Arte al Padiglione Nazionale Grenada, è strettamente in linea con il tema generale della mostra “An unknown that does not terrify” inserendosi in un’ottica di integrazione e multietnicità. Può parlare del processo creativo dell’opera?
L’opera riflette un tentativo disperato e coraggioso di integrazione in un mondo nuovo, sconosciuto, lontano e diverso dal proprio, dal quale si è fuggiti a causa della violenza perpetrata ai danni della gente di appartenenza. L’arrivo in un mondo nuovo è una incognita che non terrorizza, anzi da speranza.
Una delle voci più interessanti della letteratura post-coloniale a cui l’intera mostra si ispira è l’intellettuale martinicano Édouard Glissant che con la sua “Poetica della Relazione” nega «i presupposti del cosiddetto autismo identitario» ponendo «le basi di un divenire di scambio continuo con l’altro». La sua opera Nuovo Esodo - Gli Scartati riflette questa concezione e in che misura?
Quest’opera è un tentativo di integrazione andato male. In essa c’è il dramma di persone che hanno lasciato la terra d’origine per fuggire dall’ingiustizia e dalla miseria, lasciando dietro la propria storia, l’eredità culturale, le radici. Persone che si trovano a vivere violentemente il buio della perdita di una vita nuova. Sono gli scartati, coloro che non hanno futuro, che lo stanno cercando altrove seppur gli venga costantemente negato. Sono i disperati, coloro che avrebbero anelato ad una integrazione che purtroppo, forse, non ci sarà mai.
Spesso la sua produzione, sperimentale e avanguardista, tratta tematiche sociali, basti pensare ad un’altra opera molto significativa e in linea con quella presentata a Venezia dal titolo In fila realizzata nel 2020 in acrilico e smalti su pvc. Da queste e molte altre composizioni si evince una peculiare sensibilità che si fa carico di problematiche sociali contemporanee. Come vive, da artista, questo tempo non sempre facile per l’umanità e come vede il futuro?
Finché l’uomo non imparerà ad amare il suo prossimo, ci sarà sofferenza, ingiustizia, lotta e separazione. L’opera In fila riguarda persone in cerca di integrazione e dignità, che, rispettando una fila, attendono umilmente il proprio turno, forse per un pezzo di pane. Il loro dolore emerge anche dalle scarpe consumate e dai piedi emaciati per tutte le strade percorse alla ricerca di una fuga e di libertà. Il mio desiderio è evidenziare il bisogno di riscatto umano e sociale di chi è ingiustamente oppresso e sottomesso. Nelle opere voglio trasmettere il messaggio di speranza secondo cui, prima o poi, il loro calvario venga accolto dall’umanità, voglio quindi sensibilizzare l’osservatore verso i più deboli.
Il suo lavoro è stato accostato da diversi critici d’arte, fra cui Sgarbi, a alcuni esponenti della Transavanguardia come Chia, Paladino. Si riconosce in tali riferimenti?
Negli anni Novanta il mio stile era molto vicino alla Transavanguardia: Chia, Clemente, Cucchi. La mia arte è stata associata anche all’espressionismo tedesco, raffigurando immagini molto forti. Negli ultimi tempi sono stato definito un artista postmoderno, con uno stile figurativo che comunque mantiene una sua riconoscibilità. Indubbiamente rispetto alla produzione passata ora c’è uno studio più accurato nella tecnica e nella forma, il mio tratto si è addolcito. Oggi quel grido di dolore disperato si è trasformato nella luce della speranza che nasce dal guardarsi dentro.
Tra le diverse personali figure una particolarmente significativa dal titolo Olocausto; partendo proprio dalle politiche di genocidio messe in atto dalla Germania nazista e giungendo ai tempi recenti che vedono il perpetrarsi di crimini di guerra in Ucraina come può l’arte sensibilizzare le coscienze?
Per me l’arte deve toccare stomaco, cuore e mente. L’osservazione deve essere un momento di introspezione e riflessione. La mia arte vuole scuotere profondamente le coscienze andando a toccare proprio le criticità dell’era contemporanea, come fosse una lente di ingrandimento in grado di amplificare il dolore provocato dalla insensibilità umana.
I suoi progetti futuri?
Sto lavorando ad un progetto che vorrebbe portare l’arte in una comunità di ragazzi con problematiche sociali, affinché, nella gioia della creazione che li vedrà coinvolti tutti insieme, si lasceranno trasportare dalle emozioni. Un progetto, con la mia guida, da vivere collettivamente che si servirà di grandi tele e della musica. Il tema sarà “NOI” e quindi riguarderà quell’inclusione di cui il mondo ha tanto bisogno.
Intervista a cura di Erminia Iori
Alessandro Poggiani
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