30 anni senza John Huston

Nato a Nevada - nel Missouri - nell’agosto 1906, figlio dell’attore di teatro Walter Huston (1884-1950), noto anche per film come I signori della stampa (M. Webb, 1929), Il virginiano (Victor Fleming, 1929), Il cavaliere della libertà (David W. Griffith, 1930), Codice penale (Howard Hawks, 1931), La sposa della tempesta (William Wyler, 1931), La follia della metropoli (Frank Capra, 1932), Il giustiziere (E. L. Cahn), Gabriel Over the White House (Gregory La Cava, 1933), Infedeltà (William Wyler, 1936), Cuori umani (Clarence Brown, 1938), L’oro del demonio (William Dieterle, 1941), I misteri di Shanghai (Josef von Sternberg, 1941), Il mistero del falco (1941) e Il tesoro della Sierra Madre (1948, con cui vince l’Oscar come Miglior Attore Non Protagonista), una volta terminata la scuola superiore, a partire dal 1924 si dedica dapprima alla carriera militare, poi al giornalismo e, nello stesso periodo, alla boxe, nella categoria dei pesi medi.
Nel ’29 pubblica American Mercury, un libro di racconti ambientato soprattutto nel mondo del pugilato, e scrive la commedia Frankie and Johnny, rivelando una notevole attitudine alla narrazione. Pertanto il padre lo spinge a dedicarsi alla recitazione e lo introduce nell’ambiente teatrale.
Nel ’31 collabora così alla sceneggiatura del già citato La sposa della tempesta. Messo sotto contratto dalla Warner Bros, scrive o collabora alla sceneggiatura di numerosi film, fra cui ll dottor Miracolo (1932) di Robert Florey, Law and Order (1932) di Edward L. Cahn, La figlia del vento (1938) di William Wyler, Il sapore del delitto (1938) di Anatole Litvak, Il conquistatore del Messico (1939) di William Dieterle, Un uomo contro la morte (1940), anch’esso diretto da William Dieterle, Una pallottola per Roy (1941) di Raoul Walsh, Il sergente York (1941) di Howard Hawks.
Nello stesso anno esordisce alla regia con il già citato Il mistero del falco (1941), tratto da The Maltese Falcon di Dashiell Hammett e considerato (insieme a Double Indemnity - 1944 - di Billy Wilder, Il grande sonno - 1946 - di Howard Hawks, Il postino suona sempre due volte - 1946 - di Tay Garnett, e Out of the Past - 1947 - di Jacques Tourneur) uno fra i migliori noir americani degli anni Quaranta, e provocando subito clamore per un modo del tutto spiazzante di affrontare il noir, un modo che mette in primo piano il “male di vivere”, atmosfere torbide e un’aspra disillusione, perfettamente rappresentata dal detective Sam Spade, interpretato da Humphrey Bogart (1899-1957). Quelle che saranno le caratteristiche fondamentali e peculiari del suo cinema ci sono già tutte: l’oscillare fra la cupidigia sfrenata e la clamorosa sconfitta, fra avidità e disperazione; la messa in scena del crudele e incerto gioco della caccia, in cui il cacciatore a volte diventa preda e viceversa; uomini e donne ossessionati dalla volontà di potenza che cadono insieme alla loro vanità.
In questa nostra vita (1942), suo secondo film, interpretato da Bette Davis, è una fra le pellicole più antirazziste mai realizzate ad Hollywood fino ad allora.
Il successivo Agguato ai tropici (1943) film di propaganda per gli Stati Uniti impegnati nella Seconda guerra mondiale, viene preceduto dal documentario - della serie Why We Fight? - Report from the Aleutinas (1943), di livello molto superiore in confronto alla media dei materiali d’informazione bellica.
In quegli anni l’esercito interrompe la carriera hollywoodiana di molti registi (noti e meno noti), arruolandoli ed incaricandoli di filmare gli eventi bellici. John Huston non fa eccezione e nel ’44 lo troviamo in Italia, insieme alle truppe alleate che risalgono la penisola. In Italia realizza il documentario The Battle of San Pietro (1944), opera poco nota (considerata, in un certo qual modo, come una sorta di anticipazione del celebre Paisà - 1946 - di Roberto Rossellini) con uno sguardo dolente e fortemente antiretorico.
Dopo la guerra torna alla sceneggiatura scrivendo L’idolo cinese (1946) di Jean Negulesco.
Due anni dopo scrive il già citato Il tesoro della Sierra Madre (1948), che rappresenta anche il suo ritorno alla regia, in cui ripropone personaggi destinati al fallimento, preda delle loro bramosie di ricchezza. Ancora una volta, l’interprete principale è Humphrey Bogart, il quale sarà protagonista anche del successivo L’isola di corallo (1948), quarto ed ultimo film (dopo i precedenti Acque del Sud - 1944 di Howard Hawks, il già citato Il grande sonno, anch’esso diretto da Howard Hawks, e La fuga - 1947 - di Delmer Daves) interpretato da H. Bogart e Lauren Bacall (1924-2014). La pellicola viene rimaneggiata - e danneggiata - dalla produzione.
Di indole anticonformista ed insofferente nei confronti del dispotismo e delle imposizioni dall’alto, John Huston fonda la casa di produzione cinematografica Horizon Pictures, con cui produce, scrive e dirige Stanotte sorgerà il sole (1949), film sulla rivolta cubana contro il dittatore Machado, interpretato da John Garfield.
Interessato soprattutto alla libera espressone della sua visione del mondo, non esita l’invito da parte della Metro Goldwyn Mayer a dirigere (senza condizionamenti) il bellissimo Giungla d’asfalto (1950), tratto dall’omonimo libro (1949) di William Riley Burnett e considerato (insieme a Rapina a mano armata - 1956 - di Stanley Kubrick) uno fra i migliori gangster movie degli anni Cinquanta. Il tema di fondo è nuovamente il crollo delle volontà di potenza, materializzate nel denaro, obiettivo fondamentale delle mosse più disperate che si frantumano di fronte all’imprevedibile ed ineluttabile intervento del “Caso”. Il film vincerà il Leone d’Oro a Venezia per il Miglior Attore (un superlativo Sam Jaffe).
A partire dall’inizio degli anni Cinquanta, e poi nel corso di tutti i trent’anni successivi, giocherà con le majors una sorta di “partita a rimpiattino”, dirigendo film di alta qualità “mercantile” per procurarsi i mezzi per vivere lontano dalla California (soprattutto in Irlanda ed in Messico, lasciando tuttavia il segno in opere di alto livello ed intensi.
Nel ’51 prova a realizzare La prova del fuoco, il film che non smetterà di considerare il suo “capolavoro tradito”. Tuttavia, la sceneggiatura, piena di antimilitarismo e fortemente anticonvenzionale sotto il profilo della struttura narrativa spaventa la produzione (siamo all’inizio degli anni Cinquanta, ergo in pieno maccartismo), che stravolgerà il montaggio ed opererà tagli decisivi. Il regista finirà per disconoscerlo ed accetterà di dirigere Humphrey Bogart e Katharine Hepburn ne La regina d’Africa, girato soprattutto in Congo ed in Uganda.
L’anno successivo dirige Moulin Rouge (1952), opera sontuosa che vince due Oscar (Miglior Scenografia e Migliori Costumi) ed il Leone d’Argento a Venezia.
Dopo il bizzarro ed umoristico Il tesoro dell’Africa (1954), girato in Italia, impiega circa due anni per realizzare Moby Dick, la balena bianca (1956), tratto dall’omonimo libro di Herman Melville,, interpretato da un superlativo Gregory Peck ed Orson Welles (nel ruolo del predicatore) ed in cui troviamo in primo piano uno fra i motivi fondamentali del suo cinema: quello della caccia feroce, irriducibile e senza senso. Motivo che si fonde con una forte metafora del dispotismo che assume un punto di vista dichiaratamente ateo. «Volevo fosse chiaro che Moby Dick rappresenta l’impostura assoluta di Dio, la sua crudeltà, la sua inumanità. Il film è una bestemmia e mi sorprende che nessuno protesti», affermerà lo stesso John Huston. In realtà, il film verrà accolto in modo piuttosto tiepido e la metafora verrà percepita solo molti anni dopo, quando la pellicola verrà rivalutata come merita.
Il film successivo, Heaven Knows, Mr Allison (1957, in Italia tradotto in L’anima e la carne), interpretato da Robert Mitchum e Deborah Kerr, che narra di un marine americano e di una suora naufragati su un atollo disabitato, è anch’esso percorso da numerosi tocchi di irriverenza.
Dopo il rifiuto della regia di Addio alle armi - a causa delle limitazioni imposte dalla produzione -, segue il trasferimento in Giappone per le riprese de Il barbaro e la geisha (1958), con John Wayne. Nello stesso anno dirige anche Le radici del cielo (1958), interpretato da Errol Flynn (al suo penultimo film) ed Orson Welles.
Arrivato alla fine degli anni Cinquanta scrivendo o in ogni caso mettendo mano alle sceneggiature di tutti i suoi film, a partire dal ’60 girerà oltre venti pellicole, fra cui alcuni delle più importanti della sua filmografia.
Se fra questi ultimi la maggior parte degli storici del cinema e dei critici cinematografici non collocano i western Gli inesorabili (1960), interpretato da Burt Lancaster e Audrey Hepburn, e Gli spostati (1961), interpretato da Clark Gable (al suo ultimo film), Marilyn Monroe (anche lei al suo ultimo film), Montgomery Clift ed Eli Wallach, è invece un’occasione perduta Freud, passioni segrete (1962), uno spaccato della vita di Sigmund Freud, film fallito forse a causa dei tagli di circa tre quarti d’ora in confronto alla durata originaria (due ore e quarantadue minuti) e della mancata collaborazione con Jean-Paul Sartre, il quale aveva scritto una sceneggiatura poi scartata dal regista in quanto considerata troppo imponente.
Il film successivo, I cinque volti dell’assassino (1963), con Kirk Douglas, è un thriller piuttosto scanzonato che si colloca nel filone alla Sherlock Holmes.
La sua cifra registica si riaffaccia ne La notte dell’iguana (1964), interpretato da Ava Gardner, Richard Burton e Deborah Kerr, e si manifesta soprattutto nell’alleggerimento dell’atmosfera angosciante del testo di Tennessee Williams.
Anche in Riflessi in un occhio d’oro (1967), interpretato da Marlon Brando, la mano del regista, allenata a rimaneggiare i romanzi, i racconti e le opere teatrali da cui a volte sono tratti i film, destabilizza l’omonimo libro di Carson McMullers, smussando le ambiguità e trovando la misura per restituire una distaccata osservazione della rete di passioni intrecciata nei personaggi.
Prima di Riflessi in un occhio d’oro aveva diretto La Bibbia (1966) e - insieme a Val Guest, Ken Hughes, Joseph McGrath e Robert Parrish - la parodia James Bond - Casino Royale, mentre due anni dopo realizza Di pari passo con l’amore e con la morte (1969) e La forca può attendere (1969), in cui esordisce la diciassettenne Anjelica Huston, figlia del regista.
Di maggior spessore Lettera al Kremlino (1970), film di spionaggio attraversato da una vena di sarcasmo, ed in cui il degrado esistenziale viene equamente distribuito fra il cosiddetto “socialismo reale” ed il mondo occidentale.
Due anni dopo, la sua cifra di regista/autore trova uno fra i suoi momenti più alti in Città amara - Fat City (1972), che si svolge in una cittadina della California nell’ambiente della boxe di categoria infima. Un’opera cruda e dolente, una fredda “radiografia” del fallimento in uno spaccato di mondo scorticato dalla vita. Una deriva verso il fondo che, come avviene sovente nel suo cinema, lascia intravedere i connotati di uno scacco esistenziale, ma anche i tratti di un destino sociale nato nella miseria e nella solitudine.
Nei film successivi, la notevole esperienza tecnica accumulata, la maturità del linguaggio, un equilibrio estetico ormai governato, la disillusione nei confronti del mondo (disillusione che tuttavia rifiuta il distacco qualunquistico) lasceranno quasi sempre un segno incisivo.
Nello stesso anno realizza L’uomo dai sette capestri (1972), western scritto da John Milius (che scrive anche Corvo rosso… non avrai il mio scalpo! - 1972 - di Sydney Pollack e futuro regista di Dillinger - 1973 -, Il vento e il leone - 1975 -, Un mercoledì da leoni - 1978 -, Conan il barbaro - 1982 -, Alba rossa - 1984 -, Addio al re - 1988 - e L’ultimo attacco - 1991) e che mette in scena (oltre trent’anni dopo L’uomo del West - 1940 - di William Wyler) il “leggendario” Roy Bean, ex bandito autoproclamatosi giudice e sceriffo, ed inflessibile e tirannico inquisitore. Un’ironica invettiva contro l’avidità del capitalismo sfrenato e, nello stesso tempo, un’esaltazione della lealtà e delle ragioni dell’individuo.
Dopo L’agente speciale MacIntosh (1973), film di spionaggio interpretato - come anche il precedente L’uomo dai sette capestri - da Paul Newman, L’uomo che volle farsi re (1975), con Sean Connery e Michael Caine, girato con mano decisamente fluida, è un’opera dal gusto sferzante, attraversata da una metafora antimperialista tutt’altro che nascosta che rovescia il segno del racconto di Rudyard Kipling da cui il film è tratto.
I quattro film successivi (La saggezza del sangue - 1979 -, tratto dall’omonimo libro di F. O’ Connor e caratterizzato da un crudo sguardo sulla caduta delle illusioni, Fobia - 1980 -, Fuga per la vittoria - 1981 -, con Sylvester Stallone, Michael Caine e Max von Sydow, e Annie - 1982) rappresentano una sorta di fase di passaggio che precede il suo ultimo grande film, ovvero Sotto il vulcano (1983), tratto da un libro di M. Lowry. Il film appare come una sorta di “paradigma” della sua filosofia. Lo sguardo si allarga verso una fenomenologia di una vita, quella di un uomo che affoga le sue angosce nell’alcol.
Con L’onore dei Prizzi (1985), interpretato da Jack Nicholson, Kathleen Turner e Robert Loggia, realizza uno fra i suoi migliori film (almeno fra quelli girati dagli anni Sessanta in poi)) riuscendo a calibrare, in un notevole equilibrio - la scansione della commedia e le sanguinarie ritualità di un gangster movie che si svolge negli ambienti della mafia italoamericana. Nel film Anjelica Huston, vince un Oscar come Miglior Attrice Non Protagonista. John Huston diventa così - e lo è ancora oggi - l’unico grande regista che, nel corso della sua lunga carriera, sia riuscito a far vincere un Oscar a suo padre (per il già citato Il tesoro della Sierra Madre) ed a sua figlia. E fra l’altro, in entrambi i casi, si tratta di Oscar meritati.
All’età di ottant’anni, già malato di cancro, dirige The Dead - Gente di Dublino (1987), tratto da un racconto di James Joyce e da alcuni considerato il suo capolavoro. Il flusso della memoria che affiora dal profondo, laceranti ricordi a lungo scacciati e che ora sfondano il muro della coscienza ed appaiono come spettri del passato e, nello stesso tempo, fantasmi del presente. La tenerezza, il rimpianto, le gioie, i fallimenti; quello che “è stato”, quello che “non sarà mai” o “non sarà più”. Uno struggente film-testamento.
Inoltre, impossibile non ricordare il fatto che, a partire dagli anni Sessanta, John Huston è apparso come attore - a volte dimostrando ottime doti recitative - in vari film. Oltre ai suoi e già citati La Bibbia, James Bond - Casino Royale e La saggezza del sangue ricordiamo Il cardinale (1963) di Otto Preminger, Candy e il suo pazzo mondo (1968) di Christian Marquand, De Sade (1969) di Cy Endfield, Anno 2070 - Ultimo atto (1973) di Jack Lee Thompson, Dieci secondi per fuggire (1975) di Tom Gries, il già citato Il vento e il leone di John Milius, Tentacoli (1977) di Oliver Hellman, Angela (1978) di Boris Sagal, Il triangolo delle Bermuda (1978) di René Cardona jr, Rebus per un assassinio (1979) di William Richert, Momo (1986) di Johannes Schaaf.
Fra le sue performances da attore, su tutte spiccano senz’altro il ruolo del folle capitano Henry del western Uomo bianco... va col tuo Dio! (1971) di Richard C. Sarafian, interpretato da Richard Harris e considerato (insieme ai quasi coevi Ucciderò Willy Kid - 1969 - di Abraham Polonsky, Un uomo chiamato cavallo - 1970 - di Elliot Silverstein, Piccolo grande uomo - 1970 - di Arthur Penn, Soldato blu - 1970 - di Ralph Nelson, e il già citato Corvo rosso… non avrai il mio scalpo! di Sydney Pollack) come uno fra i migliori western della cosiddetta New Hollywood di fine anni Sessanta/inizio Settanta, e quello del tirannico Noah Cross di Chinatown (1974) di Roman Polansky, interpretato da Jack Nicholson e Faye Dunaway.
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Alessandro Poggiani
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