40 anni senza Steve McQueen, il grande attore e pilota ucciso dall’amianto

Steve McQueen in "L'inferno di cristallo" di John Guillermin Steve McQueen in "L'inferno di cristallo" di John Guillermin
Quarant’anni fa moriva il grande attore americano, interprete di film quali “I magnifici sette” e “La grande fuga” di John Sturges”, “L’inferno è per gli eroi” di Don Siegel, “Quelli della San Pablo” di Robert Wise, “Il caso Thomas Crown” di Norman Jewison, “Bullit” di Peter Yates, “La 24 Ore di Le Mans” di Lee. H. Katzin, “L’ultimo buscadero” e “Getaway” di Sam Peckinpah, “Papillon” di Franklyn J. Schaffner, “L’inferno di cristallo” di John Guillermin”, “Tom Horn” di William Wiard, “Il cacciatore di taglie” di Buzz Kulik.

Nato a Beech Grove - nell’Indiana - nel marzo 1930 (ergo nel 2020 viene ricordato non solo per il quarantennale della sua scomparsa, ma anche per il novantesimo anniversario della sua nascita), trascorre una giovinezza di povertà e mestieri precari e, d’istinto, all’inizio degli anni Cinquanta arriva ai corsi dell’Actor’s Studio di New York, dove impara a governare la sua fisicità irruente.

Dopo il debutto in teatro (nel 1952), esordisce al cinema in ruoli secondari (Girl on the Run - 1954 - di Arthur J. Beckhard e Joseph Lee, Lassù qualcuno mi ama - 1956 - di Robert Wise, con Paul Newman - al suo secondo film) in cui non viene neppure accreditato.

Dopo l’horror Fluido mortale (1958) di Irvis S. Yeaworth Jr, suo primo ruolo da protagonista, nel ’60 viene arruolato nel gruppo di pistoleri mercenari del celeberrimo I magnifici sette di John Sturges, in cui recita con Yul Brynner, Eli Wallach, Charles Bronson, James Coburn, Brad Dexter, Robert Vaughn e Horst Bucholtz.

Tre anni dopo primeggia da protagonista in La grande fuga (1963), anch’esso diretto da J. Sturges ed in cui s’impone definitivamente con il suo personaggio d’azione e con la maschera da “duro”. Agilissimo e scattante in un’epoca in cui i duri pieni di muscoli ancora non andavano di moda, negli anni successivi, ai suoi adrenalinici personaggi aggiunge dettagli, sfumature, sottigliezze ed introspezione psicologica, trovando un ottimo equilibrio fra azione e recitazione, fino a a raggiungere uno stile che poi verrà imitato dai “divi” della generazione successiva.

I suoi ruoli successivi son quasi tutti riusciti: dal giocatore professionista di Cincinnati Kid (1965) di Norman Jewison, al marinaio di Quelli della San Pablo (1966) di Robert Wise.

Bullit (1968) di Peter Yates è uno fra i capostipiti del poliziesco metropolitano americano, con celebri sequenze di inseguimento in auto, ed in cui interpreta un agente di polizia solitario ed amareggiato, ma comunque votato al dovere.

In Papillon (1973) di Franklin J. Schaffner, in cui recita con Dustin Hoffman, è il detenuto in fuga dalla famigerata colonia penale della Cajenna - nella Gujana francese -, mentre l’anno seguente ha ancora un ruolo d’azione nei panni del comandante dei pompieri accorsi nel grattacielo in fiamme del celebre L’inferno di cristallo (1974) di John Guillermin, con Paul Newman, William Holden e Faye Dunaway, e considerato (insieme a Airport di George Seaton e L’avventura del Poseidon di Ronald Neame) come uno fra i migliori film del cosiddetto “filone catastrofico” degli anni Settanta.

Con il malinconico cowboy di Tom Horn (1980) di William Wiard e con il poliziotto di Il cacciatore di taglie (1980) di Buzz Kuliz, chiude prematuramente la sua carriera (di circa trenta film nel corso di venticinque anni).

Fra gli altri titoli ricordiamo Autopsia di un gangster (1958) di Robert Stevens, Gli occhi del testimone (1958) di Charles Guggenheim e John Stix, Sacro e profano (1959) di John Sturges, The Honeymoon Machine (1961) di Richard Thorpe, L’inferno è per gli eroi (1962) di Don Siegel, Amante di guerra (1962) di Philip Leacock, Soldato sotto la pioggia (1963) di Ralph Nelson, Strano incontro (1963) e L’ultimo tentativo (1965) di Robert Mulligan, Nevada Smith (1966) di Henry Hathaway, Il caso Thomas Crown (1968) di Norman Jewison, con Faye Dunaway, Boon il saccheggiatore (1969) di Mark Rydell, La 24 Ore di Le Mans (1971) di Lee H. Katzin, Il rally dei campioni (1971) di Bruce Brown, L’ultimo buscadero (1972) e Getaway (1972) di Sam Peckinpah, Il nemico del popolo (1978) di George Schaefer.

Attivo anche in televisione, alla fine degli anni Cinquanta è protagonista della serie western Wanted: Dead or Alive (Ricercato vivo o morto - 1958-60, novantacinque episodi). È inoltre apparso in alcuni episodi di altri telefilm, fra cui Alfred Hitchcock Presents (in due episodi, fra cui il celebre Man From the South, con Peter Lorre).

 

Oltre che per il suo talento da attore, Steve McQueen è ricordato anche per la sua passione per le corse automobilistiche e motociclistiche. Quando ne aveva la possibilità, amava fare a meno di controfigure e appariva lui stesso nelle scene che, nella maggior parte dei casi, venivano affidate agli stuntmen.

Le più note scene motoristiche furono girate per Bullitt e nella sequenza della cattura finale di Hilts in La grande fuga, quando prova a raggiungere la Svizzera a bordo di una moto Triumph TR6 Trophy mascherata da Bmw bellica. Solo la scena dell'ultimo salto del filo spinato fu eseguita dallo stuntman Bud Ekins. L’attore aveva provato la scena una prima volta, ma era finita con una caduta e la produzione, per non rischiare un infortunio, gli aveva imposto di non riprovarci. In tutte le altre scene di inseguimento non vi fu mai il bisogno effettivo di uno stuntman.

Nel corso della sua carriera cinematografica Steve McQueen si cimentò in molte gare e prese più volte in considerazione l'ipotesi di abbandonare il cinema per dedicarsi completamente alle corse.

Nel ’70 partecipò alle 12 ore di Sebring insieme al pilota Peter Revson (1939-1974) su una Porsche 908, guidandola con un piede fasciato a causa di un incidente in moto ed arrivando primo nella sua categoria e secondo assoluto dopo i vincitori Ignazio Giunti, Nino (detto “Ninni”) Vaccarella e Mario Andretti su Ferrari 512 S.

L’anno seguente un'altra Porsche, la 917K, fu usata come camera car per girare Le 24 Ore di Le Mans (1971). Il film fu un flop al box office un flop al botteghino e rappresentò un piccolo “incidente di percorso” nella carriera cinematografica di McQueen, ma oggi, a distanza di circa cinquant’anni, viene ricordato come una realistica testimonianza di uno fra i più noti periodi della storia delle corse automobilistiche e come uno fra i migliori film sull’argomento mai girati.

Nel corso degli anni Sessanta e Settanta, l’attore partecipò anche a molte gare motociclistiche, soprattutto a bordo di una Triumph Bonneville e di una Triumph 500cc acquistata da B. Ekins. Fra le altre corse a cui prese parte, la Baja 1000, la Mint 400, il Gran Prix di Elsinore e, nel ’64 (l’anno dopo La grande fuga), fu scelto per rappresentare gli Stati Uniti alla ISDE (International Six Days Enduro)

Steve McQueen muore nel novembre 1980 a soli cinquant’anni, ucciso da un letale mesotelioma pleurico, tumore polmonare ufficialmente classificato come “raro” ma che purtroppo non lo è affatto (anzi, è tristemente noto) fra chi ha respirato polveri d’amianto per periodi più o meno lunghi. A condannare S. McQueen pare siano stati il servizio militare fra i Marines - alla fine degli anni Quaranta -, durante il quale lavorò per molti mesi allo smantellamento dell’amianto dai soffitti delle navi, e, molti anni dopo, il contatto con le tute ignifughe - all’epoca fatte di amianto, come anche le tute dei pompieri - che indossava nelle corse automobilistiche.

La sua salma viene cremata e le sue ceneri, come da sua volontà, disperse nell’Oceano Pacifico.

 

Ora, quasi ogni malattia (nonché gli incidenti) ha avuto anche le sue vittime celebri nel mondo dello spettacolo e, in alcuni casi, ciò ha contribuito a far accendere i riflettori ed a sensibilizzare l’opinione pubblica su quella malattia medesima. In moltissimi (sicuramente i cinefili, ma anche molte persone che non lo sono) sanno che Rock Hudson (1925-1985) morì di Aids, che Humphrey Bogart (1899-1957) morì di tumore alla gola perché fumava oltre sessanta sigarette al giorno, che Clark Gable (1901-1960), John Garfield (1913-1952), Tyrone Power (1913-1958) e Alan Ladd (1913-1964), morirono prematuramente di attacco cardiaco, che Gary Cooper (1901-1961) morì di cancro, che David Niven (1910-1983) morì a causa della Sla (Sclerosi laterale amiotrofica), che le carriere di Burt Lancaster (1913-1994) e Kirk Douglas (1916-2020) furono interrotte (o, nel caso di K. Douglas, molto rallentate) da un ictus, che Yul Brynner (1920-1985) morì di tumore al polmone perché fumava come un matto, che Charles Bronson (1921-2003), Charlton Heston (1923-2008) e Peter Falk (1927-2011), vissero i loro ultimi anni di vita con l’Alzheimer, che Carole Lombard (1908-1942) morì in un incidente aereo, che Grace Kelly (1929-1982) e James Dean (1931-1955) persero la vita in incidenti d’auto. E gli esempi potrebbero continuare a lungo.

Steve McQueen, invece, a volte viene nominato come grande attore e grande pilota, altre come bravo attore e grande pilota, altre per le sue difficoltà con alcool e droghe, altre ancora, nell’immaginario collettivo, i suoi personaggi vengono confusi con la sua figura (diventata simbolo di “vita spericolata” per via della celebre canzone di Vasco Rossi del 1983). Tuttavia, quando si parla della sua morte, nella stragrande maggioranza dei casi, si parla genericamente di morte per tumore (senza neppure specificare che tipo di tumore - come già detto, fu un mesotelioma pleurico).

Tenendo conto del fatto che quando si parla di amianto stiamo parlando di una vera e propria “piaga” che ha ucciso (ed uccide ogni anno) migliaia di persone, forse qualche volta sarebbe il caso di ricordarlo: ad uccidere Steve McQueen non fu la sua “vita spericolata” (ad esempio un incidente automobilistico o motociclistico), non furono le sue difficoltà con alcool e droghe (nel corso degli anni Settanta ne ha avute alcune), non fu un infarto o un ictus. Ad uccidere Steve McQueen a soli cinquant’anni fu l’amianto.

Classe 1986, storico del cinema e giornalista pubblicista, appassionato di courtroom dramas, noir, gialli e western da oltre quindici anni, ha lavorato come battitore e segretario di produzione per un documentario su Pier Paolo Pasolini. Dopo un master in Editoria e Giornalismo, ha collaborato con il Saggiatore e con la Dino Audino Editore. Attualmente lavora come redattore freelance, promotore di eventi culturali e collaboratore alle vendite in occasione di presentazioni, incontri, dibattiti e fiere librarie.

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