Greed, di Alberto Scandola e Michel Chion. Viaggio attraverso il cinema di Erich von Stroheim

«L’opera di Erich von Stroheim», scrisse André Bazin (1918 - 1958), «appare come la negazione di tutti i valori cinematografici della sua epoca».
«L’altro giorno ho visto un film bellissimo che nessun altro vedrà mai”, afferma Harry Carr nel gennaio 1924. “Si tratta della versione ancora integra di Greed di Stroheim. È un lavoro magnifico, ma è lungo 45 rulli. Non oso pensare cosa ne faranno. È come I miserabili.Ci sono episodi che sulle prime paiono non c’entrare nulla con la storia, poi dodici o tredici rulli dopo se ne rimane soggiogati. Per il suo crudo, terribile realismo e per la sua straordinaria maestria è il più grande film che abbia visto. Ma non so cosa ne sarà dopo che l’avranno ridotto da quarantacinque a otto rulli”. Come erano andate effettivamente le cose lo stesso Erich von Stroheim lo capisce ben presto: “All’epoca in cui cominciai il film lo slogan della Goldwyn Company era: Contano soprattutto l’opera e l’autore. Così ottenni pieni poteri per fare il film come avrebbe voluto farlo l’autore del romanzo”. Purtroppo, mentre lavoravo al montaggio, la Goldwyn Company divenne Metro Goldwyn Mayer e il loro nuovo slogan fu: Il produttore innanzi tutto. Mayer si fece un dovere di spiegarmi che mi dovevo considerare come un piccolo impiegato di una grande fabbrica di pantaloni che, oltre tutto, dovevano andare bene a nonno, padre e figlio!»
Capolavoro “maledetto”, massacrato dalla casa di produzione ed infine trascurato dai film studies, Greed (Rapacità, 1924) sottolinea ancora oggi una ricerca visiva dal fortissimo impianto politico, con l’obiettivo di distruggere alcuni cardini (i soldi, il matrimonio, la famiglia) dell’ideologia dominante, smascherando il marcio e l’ipocrisia che sovente è in essi. Al di là della tragica parabola di McTeague e di sua moglie, coppia corrosa da avidità, avarizia e sadomasochismo, si nasconde la volontà di raccontare l’orrore del quotidiano, la frustrazione e la vanità del tutto. Invece di dare allo spettatore l’impressione di essere “al centro del mondo” - come verrà fatto di lì a breve dalla Hollywood roosveltiana degli anni Trenta - Erich von Stroheim va ad esplorare le potenzialità simboliche della profondità di campo, rielabora in modo personale le regole del montaggio analitico e costruisce inquadrature polisemiche, che, in un certo qual modo, sono molto simili a quelli che, a partire dagli anni Quaranta, saranno i “labirinti senza centro” di Orson Welles.
Alla luce dell’analisi filmica, integrata da un’interessante conversazione fra Alberto Scandola e Michel Chion, si delineano pertanto le forme di un realismo che ha come obiettivo fondamentale quello di restituire non solo l’immagine come pulsione, ma anche il tempo inteso come durata. Una durata che la ricostruzione filologica di Rick Schmidlin - ricostruzione a cui nel libro viene dedicato un attento studio - ha tentato invano di ricomporre. La versione del film che è giunta fino a noi permette in ogni caso di cogliere, volendo usare le parole dello stesso regista austriaco, “la vita vera con il suo lerciume, le sue oscurità, la sua violenza, la sua sensualità e, in singolare contrasto, anche la sua purezza”.
Alberto Scandola è professore associato di Storia e critica del cinema presso l’Università di Verona. Si occupa soprattutto di cinema moderno e contemporaneo con particolare attenzione alla questione dell’attore. Ha pubblicato, fra gli altri, saggi su Brigitte Bardot, Marco Bellocchio, Ingmar Bergman, Bernardo Bertolucci, Roman Polanski. Dirige la collana attori per Kaplan (Torino). Fra le sue monografie Marco Ferreri (2004), Ingmar Bergman. Il posto delle fragole (2008), Ornella Muti (2009), L’immagine e il nulla: l’ultimo Godard (2014).
Michel Chion è uno fra i maggiori teorici del cinema e dell’audiovisivo in ambito internazionale. Critico cinematografico, compositore di musica concreta e regista, ha insegnato per molti anni presso l’Università di Paris III ed ha pubblicato circa venticinque monografie, la metà fra le quali dedicate al suono nel cinema. Fra gli studi più rilevanti ricordiamo La musique au cinéma (1995), Musica, media e tecnologia (1996), Stanley Kubrick. L’umano. Né più né meno (2006), Un’arte sonora, il cinema. Storia, estetica, poetica (2007).
Erich von Stroheim (Vienna 1885 - Maurepas 1957) è una fra le personalità più affascinanti e controverse del cinema muto. Emigrato ad Hollywood in cerca di fortuna, manifestò fin da subito una sorta di ossessione per il realismo nella messa in scena e la volontà di gestire in autonomia ogni fase della lavorazione sul set. Tale modo di fare “autoriale” gli provocò numerose difficoltà con i produttori, i quali ostacolarono o eliminarono molti fra i suoi progetti. Fra i suoi capolavori, oltre a Greed, ricordiamo Mariti ciechi (1919), Femmine folli (1922), Queen Kelly (1928). A partire dall’inizio degli anni Trenta si dedicherà esclusivamente all’attività di attore, lavorando sia in Europa (La grande illusione - 1937 - di Jean Renoir) sia ad Hollywood (Viale del tramonto - 1950 - di Billy Wilder, in cui interpreta il ruolo dell’ex marito della folle protagonista - interpretata da Gloria Swanson - ora “destituito” e “degradato” a maggiordomo).
Greed, pubblicato da Mimesis (Milano) nella collana “Videns” (diretta da Steve Della Casa e Andrea Rabbito), è disponibile (con Dvd allegato) in libreria e online a partire da febbraio 2017.
Alessandro Poggiani
Ultimi da Alessandro Poggiani
- Grande successo per la II edizione di Mr. Big the Gentleman Awards
- Per Amore: L’ultima notte di Anna Magnani al Teatro Tor Bella Monaca
- Il libro Prospettiva Quadraro - Qual è la libertà? di Ilaria Rossi presentato alla Feltrinelli Appia di Roma
- L’autrice Valeria Valcavi Ossoinack presenta L’eredità Rocheteau
- La post-televisione di Carlo Solarino