La luce di Pier Paolo Pasolini

Pier Paolo Pasolini negli anni Sessanta Pier Paolo Pasolini negli anni Sessanta foto Carlo Riccardi
Cade nella notte tra l’1 e il 2 novembre l'anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini, poeta, scrittore, regista, sceneggiatore, drammaturgo e filosofo, ucciso quarantacinque anni fa all’Idroscalo di Ostia.

Ad oggi questo delitto rimane una delle pagine più dolorose e oscure della storia del nostro Paese.

Alberto Moravia, suo caro amico, pronunciò queste parole durante l’orazione funebre nel giorno dei funerali ufficiali a Roma: «Poi abbiamo perduto anche il simile. Cosa intendo per simile: intendo che lui ha fatto delle cose, si è allineato nella nostra cultura, accanto ai nostri maggiori scrittori, ai nostri maggiori registi. In questo era simile, cioè era un elemento prezioso di qualsiasi società. Qualsiasi società sarebbe stata contenta di avere Pasolini tra le sue file. Abbiamo perso prima di tutto un poeta. E di poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo. Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta. Il poeta dovrebbe esser sacro».

Pier Paolo Pasolini, tra i più grandi artisti e intellettuali del XX secolo, ha lasciato una eredità immensa, ancora non raccolta nella sua interezza, costituita dal suo coraggio civico nella denuncia alla corruzione politica e culturale.

Pasolini ha, inoltre, l’enorme merito di aver analizzato, con straordinaria sensibilità e struggente lucidità, le innumerevoli sfaccettature dell’amore per gli emarginati e per il mondo popolare, rendendolo protagonista dei suoi lavori, in un delicato equilibrio di poesia e amarezza.

Dalla pubblicazione del suo primo romanzo Ragazzi di vita (1955) fino al suo ultimo film Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) la sua carriera fu continuamente motivo di scandalo per la società dell’epoca. Pasolini visse nell’Italia piccolo-borghese del dopoguerra, di cui denunciò «vizi e orrori» e per questo affrontò un altissimo numero di censure. Ricevette anche denunce sia contro la sua persona che contro i suoi lavori, da una parte imputabili alla omosessualità mai negata e dall’altra al fatto che nelle sue opere raccontò storie crude e realistiche, molto spesso associate alla violenza e alla sessualità.

Le sue origini artistiche hanno radici nel Neorealismo, da cui seppe poi allontanarsi.

 

Nato nel 1922 a Bologna, primogenito dell’ufficiale Carlo Alberto Pasolini e della maestra casarsese Susanna Colussi, Pasolini visse nei primi anni fra la Lombardia, l’Emilia e il Veneto. Lui stesso dirà: «Sono nato in una famiglia tipicamente rappresentativa della società' italiana: un vero prodotto dell'incrocio».

Ebbe con la madre un rapporto simbiotico, mentre furono sempre tesi i contrasti con il padre. Guido, il fratello minore che morì in guerra combattendo nella brigata partigiana Osoppo, visse per lui in una sorta di venerazione.

Nel 1942 si laureò in Lettere a Bologna e nello stesso anno pubblicò la prima raccolta di versi, Poesie a Casarsa, in dialetto friulano. La scelta del dialetto, anche in opere successive, nasce in lui dalla necessità di essere più vicino al popolo attraverso l’utilizzo di espressioni linguistiche spontanee e sincere e per esprimere la sua protesta rivolta allo storico controllo culturale della Chiesa sulla popolazione meno alfabetizzata. Casarsa rappresentò per lui un punto di riferimento affettivo perché vi trascorse anni importanti della sua vita.

Dopo la guerra divenne insegnante in una scuola media in provincia di Udine e iniziò la militanza nel PCI ma, accusato di corruzione di due minorenni, fu licenziato, espulso dal partito ed emarginato insieme alla famiglia.

Decise, quindi, di trasferirsi a Roma in un quartiere popolare periferico che costituirà l’ambiente di molti suoi lavori e di nuove esperienze linguistiche.

I primi tempi visse modestamente facendo l’insegnante in una scuola privata. Successivamente iniziò a collaborare con quotidiani, riviste e programmi radio.

Strinse amicizia con Giorgio Caproni, Carlo Emilio Gadda e Attilio Bertolucci, grazie al quale firmerà il primo contratto editoriale per una Antologia della poesia dialettale del Novecento, che uscirà nel dicembre del ’52 con una recensione di Eugenio Montale.

Con il successo del romanzo Ragazzi di vita (1955) Pasolini assunse un ruolo centrale nel panorama della cultura italiana.

Affascinato dal cinema e dai suoi mezzi espressivi, collaborò alla sceneggiatura di film celebri come Le notti di Cabiria (1957) di Federico Fellini e Il bell’Antonio (1960) di Mauro Bolognini. Scrisse e girò suoi lavori come Accattone (1961), Il Vangelo secondo Matteo (1964), Teorema (1968), conseguendo grandissimo successo.

Grandi affinità elettive nacquero in quegli anni, tra le quali si annovera quella con Laura Betti, Ninetto Davoli, Adriana Asti, Enzo Siciliano, Ottiero Ottieri e ancora Natalia Ginzburg, Elsa Morante, Amelia Rosselli, Sandro Penna, Giuseppe Ungaretti, Anna Maria Ortese, Alfonso Gatto, Dacia Maraini e Maria Callas.

Negli ultimi anni della sua vita Pasolini lavorò a Petrolio, un romanzo incompiuto che alcuni intellettuali e amici ritengono causa della sua morte. Oltre a questo scrisse su quotidiani e riviste articoli molto polemici. In uno di questi pubblicato sul «Corriere della Sera» il 14 novembre 1974 Pasolini scrisse: «Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti».

In numerosi di questi articoli, raccolti nelle pubblicazioni postume Scritti corsari (1975) e Lettere luterane (1976) si batte in maniera feroce contro il crescente consumismo, profetizzando molti aspetti negativi presenti nella nostra società globalizzata e opponendosi a ogni forma di ipocrisia e perbenismo. Pasolini denunciò il cambiamento antropologico della società italiana, soprattutto a causa della televisione che, essendo un medium di massa, aveva la grave colpa di aver spinto le persone a comportarsi in maniera uguale alle altre, distruggendo ogni cultura particolare e diversa.

Questa nuova forma di potere lui riteneva fosse addirittura peggiore di quella del fascismo. Pasolini dirà: «Il regime è un regime democratico. Però quella acculturazione, quella omologazione che il fascismo non era riuscito assolutamente ad ottenere il potere di oggi, cioè il potere della civiltà dei consumi, invece riesce ad ottenerla perfettamente. Distruggendo le varie realtà particolari. Togliendo realtà ai vari modi di essere uomini, che l’Italia ha prodotto in modo storicamente molto differenziato».

L’intento di Pasolini non fu solo quello di denunciare i crimini del fascismo, ma di mostrare la maschera che celava il volto del potere che, nel corso della storia, ha continuato a perpetrare crimini orribili.

Edoardo Sanguineti e altri intellettuali hanno con forza denunciato che la morte di Pasolini per mano del giovane Pelosi sia stato un «suicidio per delega». Anche Oriana Fallaci, che si è sempre battuta sostenendo l'esistenza di una regia politica del delitto, concluderà con queste parole la sua lunga lettera scritta all’amico Pasolini dopo la sua scomparsa: «Poi sullo schermo della televisione apparve Giuseppe Vannucchi e dette la notizia ufficiale. Apparvero anche i due popolani che avevano scoperto il tuo corpo. Dissero che da lontano non sembravi nemmeno un corpo, tanto eri massacrato. Sembravi un mucchio di immondizia e solo dopo che t’ebbero guardato da vicino si accorsero che non eri immondizia, eri un uomo. Mi maltratterai ancora se dico che non eri un uomo, eri una luce, e una luce s’è spenta?»

 

Rimane luce, tuttavia, Pier Paolo Pasolini nel nostro panorama culturale e rimane luce la sua vitale ricerca della verità, che fu caposaldo della sua esistenza umana e intellettuale.