Marco Fleming: A cavalcioni sul muro. Storie di ordinari disturbi mentali

Marco Fleming: A cavalcioni sul muro. Storie di ordinari disturbi mentali
«L’ignoranza che aleggia intorno ai disturbi mentali è ancora palpabile, porta a stigmatizzare non solo chi porta il disagio ma anche chi lo ha portato e ne è uscito. E uscirne è qualcosa di strepitoso, una vittoria schiacciante contro tutto e tutti... eppure rimane qualcosa da nascondere, non per tutti magari, ma per moltissimi. Che peccato».

Ma è davvero necessario nascondere una disabilità?

Con queste parole Marco Fleming introduce il suo secondo libro: A cavalcioni sul muro. Storie di ordinari disturbi mentali (Rupe Mutevole).

Dopo il successo del precedente 72 piastrelle, 54 passi (2019) l’autore torna ad affrontare il tema della malattia mentale e lo fa con il racconto dei racconti in cui i protagonisti sono tutti gli eroi, il più delle volte inconsapevoli, di questa guerra lunga e silenziosa.

«Non si guarisce mai da una dipendenza, mai. Tutto ciò che si può fare è combatterla, tutti i giorni, senza mai abbassare la guardia».

Ancora una volta Marco Fleming ha il merito di avvicinarci alle vite che racconta, con sincerità, ironia e umanità, rendendoci osservatori coinvolti e mai giudicanti. Marco convive da anni con una sindrome bipolare, che lo ha portato, dopo diversi ricoveri in reparti psichiatrici, in una comunità di recupero, per circa nove mesi. Qui ha conosciuto uomini e donne con diverse patologie. Parla di loro, nel libro, e delle loro storie, con attenzione, con rispetto e, perché no, con amore. Come racconta, alcuni sono delle meteore, in fuga dopo poche settimane dal ricovero presso la struttura. Gli altri sono i “resistenti”, veri e propri compagni di viaggio con cui l’autore condivide un percorso fatto di solitudine, di alienazione, di sofferenza ma anche di lenta e progressiva presa di coscienza, di apertura verso una nuova forma di dialogo e di vita.

«È a loro che dedico questi miei racconti: a chi, con la consapevolezza dei propri limiti, ce la mette sempre tutta, a chi ci mette sempre tutto quello che ha, rimanendo rispettoso verso se stesso. Lo dedico proprio a tutti, non solo ai disabili».

Nel libro viene descritta l’esperienza, dolorosa e salvifica, in comunità, in cui le giornate sono scandite dagli appuntamenti e dalle regole: la fila per la consegna mattutina di due gettoni per caffè e zucchero, il pranzo e le mansioni da svolgere in coppia e a turno, l’infermeria, le camere, le visite con i medici e i momenti di riposo nel parco o di condivisione nella sala comune, quella con la televisione. I racconti sono nitidi, spiazzanti, commoventi.

«Io, per almeno sette mesi su nove, stavo seduto sulla panchina in silenzio, spesso fumando, a guardare fisso la finestra del palazzo di fronte. Non so cosa ci fosse dietro a quella finestra, probabilmente neanche sapevo che quella fosse una finestra, ma era dritta davanti ai miei occhi catatonici. Tanto bastava».

Uscire dal cancello che delimita il confine non era possibile, se non con una precisa autorizzazione. Il cancello era sempre chiuso, forse per questo il desiderio di fuggire era forte.

Michela ha una figlia che ama profondamente. Consapevole della sua malattia, vive con la paura di non rivederla più. «Spesso la si trova», scrive Marco, «con la faccia appiccicata a quel cancello, con la testa appoggiata alle assi e un occhio tra le fessure puntato fuori per cercarla, sua figlia. Almeno con lo sguardo».

Fabio è il gigante che scrive libri e che ha scelto la comunità, suo malgrado e probabilmente con grande sollievo della famiglia, come sua fissa dimora. Carlotta è la donna delle pulizie, sorridente e piccolina, che tratta gli ospiti della struttura non come dei “matti”. Antonella, accumulatrice seriale affetta da sindrome da shopping compulsivo, trasforma la sua stanza in un museo. La giovanissima Aisha vede in lui un animo forte. «Avresti dovuto vedermi i primi mesi dopo la mia uscita, Aisha. Un bambino appena nato in un mondo troppo grande per lui, al quale non ero più abituato, sul quale riusciva a camminare a stento».

Carolina non si presenta alla fila per i gettoni, elemosina regolarmente le sigarette e salta spesso le sue mansioni a pranzo e a cena. Lorena ha il vizio del gioco e il suo compagno di stanza, Luca, appassionato di sport, ama attaccare briga con tutti eccetto che con lui. E poi Eliana, con cui nasce una relazione anche fuori dalla comunità, ma che diviene presto «la fionda del disturbo bipolare». Così, quando lei ricade nella dipendenza dall’alcool, Marco ritorna in quella affettiva. Ma fa in tempo a rendersene conto, evitando di cadere più giù.

Un capitolo è dedicato allo staff: medici, psicologi, infermieri. Un altro ancora ai luoghi della struttura: la guardiola, il parco, la sala colloqui, persino i bagni. Ambienti che sono punti di riferimento per gli ospiti e che diventano familiari anche al lettore. Come la solitudine.

«Là dentro eravamo sostanzialmente soli. Un privilegio non avere influenze inquinanti inevitabili quando si sta a contatto con le persone che vivono lì fuori. Un privilegio, avere la possibilità di fottersene di tutti. Un insegnamento, forse».

Marco decide di lasciare con anticipo la comunità, dopo nove mesi di permanenza, contro i ventiquattro stabiliti dai medici. Ha paura. Eppure sente il bisogno di oltrepassare il cancello e di tornare alla vita lì fuori. Con una nuova consapevolezza: imparare a mettere finalmente i muri tra lui, le cose e le persone che, complice il disturbo bipolare, lo hanno portato a stare male.

«Imparare a lasciare andare mi salvò. Non ne ero capace. Lasciare andare le persone, nel mio caso, significa non solo dar loro la possibilità di vivere la loro vita ma anche a me di vivere la mia».

La prefazione del libro è affidata a Domenico De Berardis, psichiatra della Asl di Teramo, che scrive: «Marco Fleming sia nella sua precedente opera che in questa fa un’azione che oserei definire “rivoluzionaria”. Cioè dà la voce, come narratore, a persone che non vengono quasi mai ascoltate, spesso, e di questo me ne dolgo, perfino da noi psichiatri».

Alla domanda iniziale, quindi, Marco Fleming risponde offrendoci il racconto della sua esperienza che è una ricerca di libertà. Senza filtri. Senza compassione. Senza paura. Del resto, scrive l’autore: «Dovessi scegliere tra una vita bella e una vita brutta, sceglierò sempre una vita da raccontare».

A cavalcioni sul muro. Storie di ordinari disturbi mentali è una preziosa testimonianza di coraggio che fa riflettere e che ci fa sentire tutti un po’ eroi.