Un ricordo del Campionissimo nell’anniversario della sua scomparsa

Nato a Castellania (AL) - oggi Castellania Coppi - nel settembre 1919, Angelo Fausto Coppi - meglio noto come Fausto Coppi -, professionista dal 1939 al 1959, è stato il corridore più famoso e vincente dell'epoca d'oro del ciclismo ed è giustamente considerato come uno fra i grandi e popolari atleti di tutti i tempi. Formidabile passista, eccezionale scalatore e dotato di uno spunto velocissimo, era un corridore completo e adatto ad ogni tipo di competizione su strada.
Si impose sia nelle più importanti corse a tappe sia nelle maggiori classiche di un giorno, vincendo cinque volte il Giro d’Italia (1940, 1947, 1949, 1952, 1953) - record condiviso con Alfredo Binda e Eddie Merckx - e due volte il Tour de France (1949, 1952) diventando anche il primo ciclista a far la doppietta Giro-Tour nello stesso anno (1949), mentre, fra i suoi numerosi successi nelle gare in linea, vanno ricordate le cinque affermazioni al Giro di Lombardia (1946, 1947, 1948, 1949, 1954), le tre vittorie alla Milano-Sanremo (1946, 1948, 1949) ed il successi alla Parigi-Roubaix (1950) ed alla Freccia Vallone (1950).
Primeggiò anche nel ciclismo su pista, divenendo anche campione del mondo d’inseguimento (1947, 1949) e primatista dell’ora (dal ’42 al ’56).
Nel ’53 divenne campione del mondo dei professionisti.
Leggendaria fu la sua rivalità con il grande Gino Bartali (1914-2000), che divise l’Italia nell’immediato dopoguerra. Molto efficace nell'immortalare un'intera epoca sportiva (a tal punto da entrare nell’immaginario collettivo) è la celebre foto che ritrae i due campioni mentre si passano una borraccia al Tour del France del ’52, nel corso della salita al Col du Galibier.
Fausto Coppi è anche noto per aver modificato l'approccio alle competizioni ciclistiche, grazie al suo interesse per le diete, gli sviluppi tecnici della bicicletta, i metodi di allenamento e la medicina sportiva.
Il 10 dicembre 1959, subito dopo esser stato ingaggiato dalla San Pellegrino Sport, la squadra appena formata dall’amico ed ex avversario Gino Bartali, Coppi parte con alcuni ciclisti francesi (fra i quali Raphael Géminiani, Jacques Anquetil, Roger Rivière, Henry Anglade e Roger Hassenforder) per un viaggio in Africa (nell’Alto Volta, l’attuale Burkina Faso).
Per il 13 dicembre è in programma una corsa ciclistica a Ouagadougou, accompagnata il giorno seguente da alcune battute di caccia in due riserve non lontane dalla città. Dopo la caccia Coppi e Géminiani tornano all'accampamento, occupano la stessa camera e nella notte vengono assaliti dalle zanzare, contrendo la malaria. L’indomani i due sono stanchi e debilitati e rientrano insieme a Parigi. Dopodiché il francese torna a Clermont-Ferrand, Coppi a casa sua a Novi Ligure (AL).
Il 20 dicembre Coppi e Géminiani si telefonano: entrambi hanno la febbre alta. Quella sera medesima Géminiani perde conoscenza e viene ricoverato. La moglie Anne-Marie allerta immediatamente uno specialista di malattie tropicali, il quale invia una provetta di sangue all’istituto Pasteur di Parigi. I medici rilevano la presenza nel sangue del plasmodium falciparum, il protista responsabile nell'uomo della malaria terzana maligna, la forma più violenta della malattia. Géminiani rimarrà in coma otto giorni, ma, curato con il chinino, si salverà.
Coppi si reca invece alla partita Genoa-Alessandria (spinto anche dalla curiosità di vedere all'opera l'astro nascente del calcio alessandrino, l’allora sedicenne Gianni Rivera) e, nei giorni seguenti, va anche a caccia nella sua riserva di Incisa Scapaccino (AT).
Il 27 dicembre Coppi viene colpito da febbre alta, nausea e brividi. Due giorni dopo i parenti telefonano al dottor Allegri di Serravalle Scrivia (AL), il quale, a sua volta, chiama a consulto il professor Astaldi, primario dell'ospedale di Tortona (AL). Tuttavia, i due non riescono a fornire una diagnosi. Nel pomeriggio del 1º gennaio 1960 le condizioni del campione si aggravano ulteriormente; a Tortona giunge per un altro consulto anche il professor Fieschi (Università di Genova). Coppi viene ricoverato d'urgenza prima a Novi Ligure e poi a Tortona. Alle ore 22 del 1º gennaio perde conoscenza, alle 23 è “in pericolo di vita”, all’una di notte riprende conoscenza e parla con Ettore Milano, suo storico gregario, e poco dopo entra in coma. Gli viene praticata una cura intensa (e del tutto superflua) a base di antibiotici e cortisonici, ma lui ovviamente non reagisce. Non riprenderà più conoscenza e morirà alle 8.45 del 2 gennaio 1960, a soli quarant’anni.
I medici avevano totalmente sbagliato diagnosi, ritenendo Coppi affetto da un'influenza più grave del consueto. La vicenda è aggravata dal fatto che, già qualche giorno avanti (alla fine dicembre), la moglie ed il fratello di Raphael Géminiani, avevano telefonato dalla Francia per avvertire del fatto che al ciclista francese era stata diagnosticata la malaria. I familiari di Géminiani racconteranno che i medici italiani avevano loro risposto di «pensare al loro paziente» e che a Coppi avrebbero «provveduto loro». Anche nella provetta del sangue prelevato a Coppi verrà trovato il già citato plasmodium falciparum, l’agente della malaria. Un clamoroso caso di arroganza, prosopopea e idiozia da parte del potere (in questo caso delle baronie mediche di quegli anni) che all’epoca non ebbe conseguenze legali di nessun tipo e che ancora oggi “grida vendetta”.
Il 4 gennaio 1960 a seguire il funerale dell’”Airone” sul colle di San Biagio saranno oltre cinquantamila persone.
Coppi viene sepolto nel piccolo cimitero sul colle San Biagio, nei pressi di Castellania. Alla fine degli anni Sessanta le sue spoglie e quelle del fratello Serse (1923-1951), anch'egli ciclista professionista, vengono trasferite dal cimitero e tumulate definitivamente in un mausoleo, realizzato vicino al municipio di Castellania.
Nel corso della sua lunga carriera da professionista (durata ventuno anni - diciotto se si considera l'interruzione a causa della Seconda guerra mondiale) Fausto Coppi vinse oltre centocinquanta corse su strada (centoventidue più i circuiti), cinquantotto fra le quali delle quali per distacco, ed oltre ottanta su pista. Indossò per trentun giorni la Maglia Rosa al Giro d’Italia e per diciannove giorni la Maglia Gialla al Tour de France.
Le sue imprese (e, purtroppo, anche le tragiche circostanze della sua morte) lo hanno trasformato in un’icona, una leggenda della storia del ciclismo (e in generale dell’intera storia sportiva) italiana. A sessant’anni dalla sua morte la sua popolarità e la sua fama rimangono immutate.
Alessandro Poggiani
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