“La cena delle belve” di Vahè Katchà debutta al Teatro Duse a Bologna

Italia, 1943. Durante l’occupazione tedesca, sette persone, per disconnettersi temporaneamente dalle tragedie della guerra, festeggiano in allegria il compleanno di un’amica comune. La stessa sera, nella strada di fronte alla loro palazzina, due ufficiali tedeschi vengono uccisi in un attentato e, per rappresaglia, la Gestapo decide di prendere venti ostaggi da fucilare (due per ognuno fra i dieci appartamenti di quell’edificio). Il comandante tedesco, molto colto ed appassionato di libri antichi, riconosce nel proprietario dell’appartamento il libraio dal quale a volte acquista o prende in prestito delle opere, e, per mantenere il “rapporto di cortesia”, concede loro un “privilegio”: due ore di tempo, e lasciando a loro la scelta delle due persone da consegnare. In queste due ore, ognuno cercherà con ogni mezzo di salvare la propria vita e, di fronte alla paura della morte, dopo accesi contrasti e diverbi, a poco a poco l’amicizia cadrà tirando fuori il peggio di ognuno. Il finale lascerà un quadro a dir poco deprimente della natura umana nei momenti di estrema difficoltà.
«È stato un lavoro meraviglioso, su un testo molto bello, con un adattamento altrettanto bello ed intenso di Vincenzo Cerami. È stata la sua ultima opera prima di lasciarci e per me è stato un grandissimo onore poter lavorare con la sua opera, con le sue parole, con il suo grande talento e la sua grande sensibilità. Anche la compagnia è meravigliosa. Gli attori, oltre che una professionalità ed un’umanità incredibile, hanno un talento straordinario da cui io stessa non ho fatto altro che imparare e lasciarmi ispirare, cercando nello stesso tempo di ispirarli con la mia passione. Spero veramente che il lavoro appassionerà anche il pubblico, perché è uno spettacolo che porta lo spettatore sul palcoscenico; si tratta di una situazione che idealmente potremmo vivere tutti. Una situazione che a quell’epoca avremmo potuto vivere tutti e, anche oggi, è possibile proiettarsi in una situazione simile. È uno spettacolo in cui il pubblico viene invitato a vivere con i personaggi la loro storia, perché una peculiarità della vicenda è nel fatto che si svolge in tempo reale. Quindi il pubblico ha veramente la possibilità di vivere minuto per minuto, istante per istante, gli stessi pensieri, le stesse emozioni, le stesse domande e gli stessi dubbi dei personaggi, di sentirsi come uno di loro. E naturalmente gli interrogativi che istintivamente affiorano sono numerosi ed importanti. Il primo fra tutti è “cosa farei/cosa avrei fatto io al loro posto?”, “cosa farei/cosa avrei fatto io se fossi/se fossi stato lì?”. È una pièce sulla natura umana che forse aiuta anche a sentirsi un po’ meno “in colpa” per i nostri lati oscuri. Perché anche il migliore fra noi può avere un suo lato oscuro e, nello stesso tempo, anche il peggiore di noi può avere un lato più luminoso. Pertanto il mio non è solo un invito a trascorrere una bella serata con noi, ma anche una sfida che lancio a tutti gli spettatori, a tutti coloro i quali/le quali vorranno assistere al nostro spettacolo» (Virginia Acqua)
Uno spettacolo che guida lo spettatore coinvolgendolo emotivamente fino al finale a sorpresa, e costringendolo a identificarsi ora in uno ora in un altro fra i sette personaggi: il libraio e sua moglie (la festeggiata) che organizzano la cena; il medico, che non si cura di nascondere il suo interesse e la sua simpatia per gli invasori tedeschi; un reduce di guerra rimasto cieco in combattimento e che ciononostante ha conservato uno sguardo gioioso sulla vita; una giovane vedova tentata dalla Resistenza; un omosessuale cinico ed un bieco affarista collaborazionista. Fino alla domanda fatale che lo spettatore, inesorabilmente, è portato a farsi: Cosa avrei fatto io se fossi stato al loro posto? Il genio di Vahè Katchà (1928-2003) disegna senza alcun compiacimento la natura umana, con un crudo realismo in cui, nello stesso tempo, l’ironia non è mai assente.
E, di fronte all’orrore affrontato a volte con derisione, lo spettatore è libero di decidere cosa fare: ridere di tali personaggi, “piangere” o, verosimilmente, entrambe le cose.
La vita e la morte. La guerra le rende cose quotidiane e indissolubili fra loro. Un “gioco” spietato. Un potere (quello di decidere le due persone su sette da consegnare come ostaggi da far fucilare) concesso dal capitano tedesco con estremo cinismo («Rovesciamo la prospettiva. Se volessi potrei farvi fucilare tutti e sette. Quindi non vi sto offrendo di sacrificarne due, ma di salvarne cinque») come se fosse un “privilegio”, e che trasforma sette persone (e perdipiù amiche fra loro) in “belve” pronte a partecipare ad una sorta di danza macabra in cui apparentemente l’unica via sembra esser quella di azzannarsi a vicenda in nome della legge di sopravvivenza (che, notoriamente, nei momenti di grave difficoltà, scatta in automatico ed è una fra le forze fondamentali che dominano il mondo). Ognuno, con codardia e totale mancanza di ritegno, cercherà di far uccidere gli altri, perché in fondo è meglio «avere due cadaveri sulla coscienza che esser io un cadavere sulla coscienza di qualcun altro». E nella corsa selvaggia per la sopravvivenza, sul “tavolo della trattativa” finirà di tutto: i soldi, gli amici, la propria moglie, i pazienti (da antologia la tragicomica telefonata del medico che arriverà a telefonare ad alcuni suoi pazienti che abitano in zona per provare - invano - ad invitarli nell’appartamento per far aumentare il numero di persone “papabili” per la fucilazione e far diminuire così le probabilità di esser scelto lui). Ma soprattutto sarà la dignità di ognuno a finire sotto le scarpe. Paradossalmente, sotto questo profilo (quello della dignità personale) ad uscirne meglio di tutti è proprio il gelido capitano tedesco. È un crucco, fa quel che fa (crimini di guerra) non ha scrupoli, ma, sia pur “a modo suo”, ha «una sua integrità» (esegue fino alla fine quello che ritiene essere il suo dovere, è granitico e del tutto incorruttibile).
Un gruppo di persone chiuse in un unico ambiente e costrette loro malgrado a prendere una decisione drammatica. Tale situazione non è affatto nuova, sia a teatro sia al cinema, ma stavolta il fatto che i sette siano amici fra loro e che l’oggetto della loro decisione dovrà essere il far fucilare due di loro trasforma il tutto in un qualcosa di straordinariamente teso, serrato, e drammatico. Una vicenda ricchissima di sfumature, sottigliezze psicologiche, dettagli, ed introspezione.
Dal testo di Vahè Katchà, negli anni Sessanta (nel 1964) è stato tratto un ottimo film francese (Le répas des fauves - titolo italiano: Il pasto delle belve), scritto da Christian-Jacque, Henri Jeanson, Claude Marcy e dallo stesso Vahè Katchà, diretto da Christian-Jacque ed interpretato da France Anglade, Francis Blanche, Antonella Lualdi, Claude Rich, Adolfo Marsillach, Dominique Paturel, Claude Nicot e Boy Gobert.
Ottima l’atmosfera, la scenografia ed i costumi. Straordinaria e molto efficace l’idea di proiettare sullo sfondo immagini di guerra che comunicano allo spettatore il clima di paura e di tensione in cui la popolazione civile era costretta a vivere (o meglio “sopravvivere”) in epoche di occupazione e di bombardamenti.
Superlative le prove di recitazione dei sette interpreti (Marianella Bargilli - Sofia, la festeggiata -, Francesco Bonomo - il reduce cieco -, Maurizio Donadoni - l’affarista collaborazionista -, Gianluca Ramazzotti - il già citato medico con simpatie per i tedeschi -, Ralph Palka - il capitano Kaubach -, Ruben Rigillo - il libraio padrone di casa e marito della festeggiata -, Emanuele Salce - il professore omosessuale e sospettato di essere ebreo -, Silvia Siravo - Francesca, la giovane ed irriducibile vedova attiva nella resistenza), tutti in grado (con una bravura da applausi - se fossimo al cinema, si direbbe che “bucano lo schermo”) di dar vita a ritratti psicologici molto convincenti, di far focalizzare di volta in volta l’attenzione dello spettatore completamente su di loro e, in alcuni casi (il personaggi di Kaubach, di Sofia e di Francesca) di surclassare le performances degli attori/attrici del già citato film francese del ’64 (rispettivamente un inquietante Boy Gobert e le brave France Anglade e Antonella Lualdi in quelli di Sophie e Françoise).
La cena delle belve di Vahè Katchà (elaborazione drammaturgica: Julien Sibre; versione italiana: Vincenzo Cerami; regia: Julien Sibre, Virginia Acqua; scene: Carlo De Marino; costumi: Francesca Brunori; disegno luci: Giuseppe Filipponio; direzione tecnica: Stefano Orsini; interpreti: Marianella Bargilli, Francesco Bonomo, Maurizio Donadoni, Ralph Palka, Gianluca Ramazzotti, Ruben Rigillo, Emanuele Salce, Silvia Siravo; produzione: Gianluca Ramazzotti per Ginevra Media Production, Centro d’Arte Contemporanea Teatro Carcano in collaborazione con Festival di Borgio Verezzi), già portata in scena a Borgio Verezzi (SV) nell’agosto 2017, al Teatro Goldoni di Bagnacavallo (RA), al Teatro Nuovo Giovanni da Udine, al Teatro San Rocco di Seregno (MB), al Cinema Teatro Cristallo di Cesano Boscone (MI), al Cinema Teatro San Giuseppe di Brugherio (MB), al Cinema Teatro Astoria di Lerici (SP), al Teatro Besostri di Mede (PV) ed al Teatro Quirino a Roma (dal 19 febbraio al 3 marzo 2019, facendo registrare grande affluenza di pubblico e inanellando numerosi e meritati en plein) rimarrà in scena al Teatro Duse fino a domenica 24 marzo 2019.
Ultima modifica il Domenica, 25/09/2022
Alessandro Poggiani
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